Studio Legale Massara https://www.studiolegalemassara.it Diritto delle società e dell'impresa - Avvocato Civilista Tue, 17 Mar 2020 13:02:02 +0000 it-IT hourly 1 NOMINA GIUDIZIALE DELL’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO https://www.studiolegalemassara.it/ritenzione-della-caparra-confirmatoria-o-risarcimento-del-danno-electa-una-via-non-datur-recursus-ad-alteram-2/ Tue, 17 Mar 2020 13:01:25 +0000 http://www.studiolegalemassara.it/?p=818 L’art. 1129 cod. civ. statuisce che la nomina dell’amministratore è obbligatoria quando i condomini sono più di otto, vale a dire almeno nove. Ma cosa accade quando i condomini – per inerzia o eccessiva litigiosità – non riescono a nominare l’amministratore?

La stessa norma prevede che in tal caso “la nomina di un amministratore è fatta dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini o dell’amministratore dimissionario”.

In realtà, poiché il condominio di edifici altro non è che una particolare forma di comunione, l’art. 1129 cod. civ. ricalca altra norma di carattere più generale: l’art. 1105 cod. civ. dispone, infatti, che – allorché la maggioranza dei partecipanti alla comunione non trovi accordo sull’amministrazione della cosa comune – l’autorità giudiziaria può nominare un amministratore ad acta su richiesta di ciascun comunista.

Val la pena rammentare che, ai sensi dell’art. 1136, comma IV, cod. civ. le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell’amministratore condominiale debbono essere approvate dalla maggioranza dei condomini intervenuti in assemblea che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio. Sovente, tale maggioranza non viene raggiunta sia per la scarsa partecipazione dei condomini all’assemblea sia perché talora si assiste alla contrapposizione di fazioni – ciascuna paladina dell’amministratore che propone – col risultato di una frammentazione di voti, che paralizza l’organo assembleare.

E poiché il condominio non può restare privo di amministratore, l’ordinamento appresta il rimedio della nomina giudiziale di un amministratore.

Sotto il profilo sostanziale, i soggetti legittimati a chiedere la nomina sono uno o più condomini ovvero l’amministratore dimissionario.

Sotto il profilo processuale, si tratta di un procedimento di volontaria giurisdizione attualmente di competenza del tribunale nel cui circondario è posto il condominio. Con l’entrata in vigore della riforma di cui al D. Lgs. 116/2017 che ha modificato l’art. 7 del codice di procedura civile, dal 31 ottobre 2021 la competenza diverrà dei giudici onorari di pace.

Dunque, per ottenere il provvedimento di nomina di amministratore giudiziale, occorre depositare un ricorso e – benché la redazione non sia di così immediata semplicità – l’atto può essere depositato anche dal condomino personalmente, senza necessaria assistenza di difensore.

Peraltro, il ricorso deve essere adeguatamente motivato e corredato da documenti che ne provino la fondatezza e tale aspetto riveste particolare rilievo, giacché – trattandosi di un istituto straordinario con cui viene chiesto al  giudice di sostituirsi alla volontà assemblare – occorre che si dia la prova dell’effettiva sussistenza dei presupposti.

Il procedimento è trattato in camera di consiglio (al pari di quello per la revoca dell’amministratore) e si conclude – in caso di  accoglimento del ricorso – con la nomina di un amministratore che il tribunale individua in apposito elenco tra soggetti iscritti, che debbono possedere i requisiti indicati nell’art. 71 bis disp. att. codice civile.

Una volta nominato dal tribunale, l’amministratore giudiziale gode delle medesime prerogative e  soggiace ai medesimi obblighi dell’amministratore di nomina assembleare per tutta la durata del suo mandato, ma l’assemblea in ogni momento potrà revocarlo, purché contestualmente nomini un altro soggetto. Non è però raro che l’amministratore giudiziale, il cui operato sia apprezzato dai condomini, venga nominato (confermato, in senso improprio) alla scadenza, così divenendo amministratore di nomina assembleare.

Altro aspetto di rilievo pratico riguarda il rimborso delle spese sostenute per ottenere il provvedimento di nomina dell’amministratore.

La questione è oggetto di aperto dibattito.

Siccome il disposto dell’art. 91 c.p.c. statuisce che solo la parte soccombente possa essere condannata al rimborso delle spese in favore dell’altra parte, si è venuta consolidando l’opinione che nel procedimento diretto alla nomina giudiziale dell’amministratore non possa farsi luogo alla liquidazione delle spese per due ordini di motivi: anzitutto, perché il procedimento non si esaurisce con una sentenza e, inoltre, perché il giudice non è chiamato a dirimere un contrasto tra posizioni giuridiche confliggenti.

La natura propria dei procedimenti di volontaria giurisdizione – s’insegna – è di non essere suscettibili di divenire “cosa giudicata”, essendo revocabili o modificabili in qualsiasi momento e, nella fattispecie, la nomina dell’amministratore giudiziale avviene soltanto per ovviare all’inerzia della collettività condominiale, la quale in ogni momento potrà esercitare la propria sovranità e procedere a nuova nomina in sede assembleare.

Sulla scorta di tali premesse, l’insegnamento prevalente della Suprema Corte afferma che i procedimenti di volontaria giurisdizione, non avendo funzione contenziosa, difettano dei presupposti per la statuizione sulle spese e, dunque, esse restano a carico del soggetto che ha assunto l’iniziativa giudiziale (Cass. Civ. 18730/2005; Cass. Civ. 4706/2001).

E’ però lecito domandarsi se tali spese non possano essere “recuperate” attraverso un’azione autonoma, in separato giudizio, atteso che, in definitiva, la collettività condominiale finisce per giovarsi dell’iniziativa del singolo.

In proposito, sembra poter soccorrere la disposizione di cui al comma XI dell’art. 1229 cod. civ. che, in materia di revoca giudiziale dell’amministratore, così dispone: “In caso di mancata revoca da parte dell’assemblea, ciascun condomino può rivolgersi all’autorità giudiziaria e in caso di accoglimento della domanda, il ricorrente, per le spese legali, ha titolo di rivalsa nei confronti del condominio che a sua volta può rivalersi nei confronti dell’amministratore revocato”.

Ora, aldilà dell’infelice sintassi del comma, il legislatore ha previsto che, pur vertendosi in materia di volontaria giurisdizione, al ricorrente che veda accolta la domanda di revoca dell’amministratore, spetta la rifusione delle spese con diritto di rivalsa nei confronti della collettività condominiale.

Ora, se è lecito riconoscere le spese a colui che ha legittimamente richiesto la revoca, perché ciò non può avvenire anche per colui che – nella comprovata incapacità dell’assemblea di dotarsi di un amministratore – ne abbia ottenuto la nomina giudiziale e, dunque, abbia agito a tutela della gestione della cosa comune?

Qualche segnale in questa direzione è possibile coglierlo.

Ancora vigente l’impianto codicistico ante novella, un interessante arresto del Tribunale di Bari aveva così statuito “Nella controversia avente ad oggetto la nomina ad amministratore di condominio, l’interesse ad agire deve perciò ritenersi ancora sussistente quando, pur non essendovi più alcun contrasto nel merito, a seguito della nomina del nuovo amministratore, non vi sia però accordo tra le parti sulla regolazione delle spese processuali, nel qual caso il giudice è tenuto a dichiarare cessata la materia del contendere, nonché a condannare alle spese giudiziali, secondo il principio della soccombenza virtuale” (Trib. Bari, Sez. III, 6.9.2012)

Più recentemente la Suprema Corte ha chiarito che, sebbene il merito della decisione contenuta nei provvedimenti di volontaria giurisdizione non sia sindacabile in sede di legittimità, tuttavia la correttezza della statuizione di condanna alle spese può essere censurata in base alla motivazione che ha condotto il giudice alla decisione sulle spese di lite, cosicché il ricorrente è legittimato a proporre censure relative alla causa petendi e all’effettivo fondamento del petitum. (Cass. Civ.28466/2019).

Pare, quindi, avvertirsi un’apprezzabile apertura, anche per ragioni volte al contenimento del contenzioso.

Marzo 2020

Avv. Massimo Massara*

*Il presente scritto rappresenta unicamente le opinioni dell’estensore

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RITENZIONE DELLA CAPARRA CONFIRMATORIA O RISARCIMENTO DEL DANNO: ELECTA UNA VIA NON DATUR RECURSUS AD ALTERAM https://www.studiolegalemassara.it/ritenzione-della-caparra-confirmatoria-o-risarcimento-del-danno-electa-una-via-non-datur-recursus-ad-alteram/ Sun, 04 Nov 2018 15:07:30 +0000 http://www.studiolegalemassara.it/?p=804 Ancora di recente, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7554 del 23.03.2017 ha ribadito l’orientamento secondo cui in caso di pattuizione di caparra confirmatoria, ai sensi dell’articolo 1385 del codice civile, la parte adempiente può scegliere tra due distinti rimedi: recedere dal contratto e trattenere la caparra ricevuta (ovvero esigere il doppio di essa) oppure chiedere la risoluzione giudiziale del contratto ed il risarcimento dei conseguenti danni, da provare a norma dell’articolo 1223 c.c.. Tali rimedi sono, però, infungibili e non cumulabili tra loro, sicché non ne è ammessa la simultanea proposizione in giudizio né la mutatio della domanda in appello.

La definizione della caparra confirmatoria è contenuta nell’art. 1385 del codice civile:
Se al momento della conclusione del contratto una parte dà all’altra, a titolo di caparra una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.
Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra.
Se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.
La caparra confirmatoria ha, dunque, la funzione di garantire l’esecuzione del contratto e, al contempo, ha natura di preliquidazione convenzionale del danno in caso di inadempimento: se inadempiente è colui che l’ha prestata, questi perderà la caparra, se invece l’inadempimento è imputabile a chi l’ha ricevuta, costui dovrà restituirne il doppio. Dunque, la caparra confirmatoria può assolvere la funzione di evitare il contenzioso giudiziale, poiché il danno connesso all’inadempimento è già stato quantificato e non richiede alcun accertamento in ordine alla sua congruità.

Alla parte adempiente è però riconosciuta facoltà di scelta. Infatti, essa potrà:
– optare per il recesso e ritenere la caparra ovvero pretenderne il doppio, senza alcuna necessità di provare il danno nel suo preciso ammontare;
– esigere l’esecuzione delle pattuizioni negoziali – ad esempio, proponendo azione per l’esecuzione specifica ex art. 2932 cod.civ. – ed offrire contestualmente la controprestazione;
– invocare la risoluzione del contratto per inadempimento con condanna al risarcimento del danno effettivamente patito. In tal caso, dovrà essere fornita la prova sia dell’ansia del quantum, secondo gli ordinari criteri in tema di onere della prova previsti dall’art. 2697 cod. civ.
Si è molto dibattuto se i due rimedi – recesso con ritenzione della caparra e azione di risoluzione – fossero cumulabili ovvero se fosse ammissibile sostituire in corso di causa l’una domanda all’altra.
Se da la possibilità di cumulo delle due azioni è ormai esclusa da tempo risalente , la questione relativa alla sostituibilità della domanda di risoluzione con quella di recesso è stata più travagliata, essendosi registrate statuizioni di segno opposto.
In sintesi: l’attore non inadempiente che ha agito per la risoluzione del contratto e la condanna al risarcimento del danno o per ottenere l’esecuzione del contratto può – nel corso della causa o in appello – sostituire le proprie originarie istanze optando per il recesso e la ritenzione della caparra, magari perché si è reso conto che il quadro probatorio non gli è così favorevole?
Egli medio tempore può ritrattare la sua scelta iniziale ed accontentarsi della sola caparra, evitando il rischio di trovarsi senza nulla in mano?
Il contrasto giurisprudenziale impose l’intervento delle sezioni unite. (Nel senso della possibilità di sostituzione Cass.n. 3331 del1959; n.1391del 1986; n.11760 del 2000; 849 del 2002; n. 11356 del 2006. In senso opposto, Cass. n. 8995 del 1993; n. 3555 del 2003).
La sentenza n. 553 del 14.01.2009, con un’articolata analisi dei diversi istituti, ha fatto definitiva chiarezza, così sintetizzatibile: electa una via non datur recursus ad alteram.
Il creditore – si legge – ha certamente diritto al risarcimento integrale se riesce a dimostrare il danno, ma non può modificare la propria pretesa, perché ciò costituirebbe un “indiscriminato favor per il creditore, secondo una sua personale convenienza valutata a posteriore, priva di alcun serio bilanciamento di interessi tra le parti”.
Tale principio pare ormai definitivamente consolidato ed stato ribadito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 7554 del 23.03.2017, ove si evidenzia l’incompatibilità delle due domande. Così viene chiarito l’assunto: “qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative”.
Quindi, la scelta tra ritenzione della caparra o azione di risoluzione per inadempimento va fatta subito ed è irrevocabile, perché non è ammesso – re melius perpensa – il postumo rifugio nella sola caparra, se le cose si mettono male.

Novembre 2018

Il presente scritto rappresenta unicamente l’opinione dell’autore avv. Massimo Massara

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IL COMODATO IN AMBITO FAMILIARE: TUTELE E LIMITI https://www.studiolegalemassara.it/il-comodato-in-ambito-familiare-tutele-e-limiti/ Fri, 22 Sep 2017 08:25:31 +0000 http://www.studiolegalemassara.it/?p=572 Assai sovente giovani coppie vanno ad abitare in un immobile loro concesso in comodato da genitori o parenti.

La disciplina e l’effettiva durata di tali rapporti, che quasi mai vengono formalizzati, hanno dato adito a contrasti interpretativi, a partire dalla qualificazione giuridica del rapporto negoziale e la sorte di questo.

Il nostro ordinamento conosce due distinti tipi di contratto di comodato: il comodato in senso proprio, disciplinato dagli art. 1803 e ss. del codice civile e il comodato c.d. precario, regolato dall’art. 1810 del codice civile.

Il comodato precario è caratterizzato dalla mancata pattuizione di un termine per la restituzione della res concessa e dalla mancata previsione della sua destinazione, cosicché il comodante ha diritto di richiedere in ogni momento la restituzione della cosa. In sostanza, la permanenza del comodatario è rimessa alla volontà del comodante, cui è riconosciuta la facoltà di recesso ad nutum.

Il comodato ordinario, invece, è soggetto a regole tese a contemperare le rispettive esigenze delle parti contrattuali.

L’art. 1809 c.c. concerne, infatti, il comodato sorto con la consegna di una cosa per un tempo determinato o per un uso che consenta di stabilire la scadenza contrattuale. In tal caso, il diritto alla restituzione della res è riconosciuto al comodante solo se egli alleghi la sopravvenienza di un bisogno urgente ed imprevisto.

Per anni l’inquadramento giuridico del comodato in ambito familiare ha visto contrapporsi due orientamenti  che hanno, infine, condotto alle Sezioni Unite ad un intervento nomofilattico.

Una prima interpretazione, di impronta familiaristica, evidenziava come la comprovata destinazione di un immobile a casa familiare imponesse l’applicazione della disciplina di cui all’art. 1809, comma 2, c.c. con conseguente diritto del coniuge affidatario di continuare a godere della casa già coniugale.

Secondo tale indirizzo, la sopravvenuta separazione dei coniugi con provvedimento di assegnazione  della casa familiare al coniuge affidatario di figli minori o maggiorenni non autosufficienti non muta la natura e il titolo di godimento, giacché la durata del comodato – in assenza di predeterminazione di durata – è da ritenersi intimamente correlata alla destinazione impressa alla cosa, per implicita o espressa volontà del comodante.

Quindi il comodante sarebbe tenuto a consentire la prosecuzione del rapporto negoziale da parte del genitore affidatario, salva la sola ipotesi di sopravvenuta ed urgente necessità in capo al medesimo di poter disporne.

Di orientamento contrario i militanti della tesi strettamente contrattualistica o negoziale, secondo cui il comodato in ambito familiare senza previsione del termine di restituzione dell’immobile, è riconducibile al precario, cosicché la crisi coniugale e la conseguente rottura del vincolo di convivenza legittimerebbero il proprietario a pretendere l’immediata restituzione del bene, a nulla rilevando l’eventuale provvedimento di assegnazione da parte del giudice.

A comporre il contrasto è intervenuta  la sentenza 29.09.2014 n. 20448 delle Sezioni Unite, con cui la Suprema Corte ha definitivamente statuito che la fattispecie in esame va inquadrata nel comodato c.d. ordinario e disciplinata secondo il disposto dell’art. 1809 comma II c.c..

Chiarisce, infatti, l’arresto che si tratta  “di contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale. È grazie a questo inquadramento che risulta senza difficoltà applicabile il disposto dell’art. 1809 comma secondo, norma che riequilibra la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale”.

La tesi solidaristica proposta dalle Sezioni Unite ha trovato conferma in più recenti sentenze (Cass. Civ. Sez. VI 21.11.2014 n. 24838; Cass. Civ. Sez. III 9.2.2016 n. 2506; Cass. Civ. Sez. III 10.2.2017 n.  3553).

In conclusione, il rapporto negoziale potrà proseguire laddove l’occupante dimostri che l’immobile era stato concesso per soddisfare le esigenze di vita familiare e non già in via meramente transitoria, fermo restando che al comodante è sempre concessa la facoltà di richiedere la restituzione del bene, ove dimostri la necessità sopraggiunta di disporne.

 

Il presente scritto rappresenta unicamente l’opinione dell’autore Avv. Massimo Massara

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DIVERGENZE TRA CONTRATTO PRELIMINARE E CONTRATTO DEFINITIVO. https://www.studiolegalemassara.it/divergenze-tra-contratto-preliminare-e-contratto-definitivo/ Fri, 22 Sep 2017 08:25:27 +0000 http://www.studiolegalemassara.it/?p=571 Può accadere che il contratto definitivo non contenga alcune clausole che erano state oggetto di pattuizione in sede di contratto preliminare ovvero che il contenuto dell’atto pubblico in parte diverga dal contenuto della promessa.

Il caso di conflitto tra i due contratti è tutt’altro che infrequente e le ragioni di tali divergenze possono essere molteplici, alcune di portata sostanziale.

La giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nel senso di ritenere la prevalenza del definitivo, salvo che i contraenti abbiano manifestato in modo espresso la volontà di far sopravvivere alcune clausole contenute nel preliminare.

In un caso in cui si discuteva dell’omessa indicazione nel rogito notarile di una particella di terreno che – secondo la volontà espressa nel contratto preliminare – avrebbe dovuto essere alienato unitamente ad altri terreni, la Suprema Corte con sentenza 9063 del 5.6.2012 ha ribadito l’orientamento, secondo cui  “nel caso in cui le parti, dopo avere stipulato un contratto preliminare, abbiano stipulato il contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al negozio voluto, in quanto il contratto preliminare, determinando soltanto l’obbligo reciproco della stipulazione del contratto definitivo, resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi a quella del preliminare, salvo che le parti non abbiano espressamente previsto che essa sopravviva (Cass. 11-7-2007 n. 15585; Cass. 18-7- 2003 n. 11262; Cass. 25-2-2003 n. 2824; Cass. 18-4-2002 n. 5635; Cass. 29-4-1998 n. 4354)”.

Motiva la Corte che “la presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova – che deve risultare da atto scritto, ove il contratto abbia ad oggetto beni immobili – di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo, dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenuti nel preliminare, sopravvivono al contratto definitivo; e che tale prova, secondo le regole generali del processo, va data dall’attore, trattandosi di fatto costitutivo della domanda con la quale egli chiede l’adempimento di un obbligo che, pur riportato nel contratto preliminare, egli può far valere in forza del distinto accordo intervenuto fra le parti all’atto della stipula del contratto definitivo (Cass. 10-1- 2007 n. 233).”

L’interpretazione offerta dalla Cassazione si pone, dunque, in disaccordo con precedente  indirizzo (Cass. 18.11.1987 n. 8486) secondo cui la stipula del contratto definitivo costituirebbe soltanto l’adempimento delle obbligazioni assunte con il preliminare e, pertanto, l’unica fonte dei diritti e degli obblighi delle parti andrebbe rinvenuta nel preliminare.

L’obiezione che viene mossa a tale assunto è chiara: “così argomentando, infatti, da un lato verrebbe a negarsi il valore di “nuovo” accordo alla manifestazione di volontà delle partì consacrata nel definitivo, che assurgerebbe, quindi, a mera ripetizione del preliminare, ponendosi in tal modo un limite ingiustificato all’autonomia privata; e, dall’altro, si attribuirebbe natura negoziale all’adempimento, in contrasto con la concezione, ormai dominante, che vede in esso il “fatto” dell’attuazione del contenuto dell’obbligazione e non un atto di volontà (Cass. 10-1-2007 n. 233).”

Ancora con ordinanza n. 20541 del 30.08.2017 la Corte Suprema ha ribadito il proprio orientamento, in un caso in cui la divergenza tra contratto preliminare e definitivo riguardava il corrispettivo della vendita.

Gli acquirenti, infatti, avevano protestato che il prezzo pagato per l’acquisto, sebbene aderente alle pattuizioni convenute nel preliminare, fosse superiore a quanto indicato nel rogito e, pertanto, chiedevano la restituzione di quanto maggiormente corrisposto al venditore. Si trattava, è facile ipotizzare, del pagamento di una parte del corrispettivo “in nero” e, quindi, della coesistenza di un prezzo “ufficiale” indicato nell’atto pubblico e di un prezzo “reale” indicato nel contratto preliminare.

Un caso di simulazione del prezzo, che differisce dai casi in precedenza citati in materia di omissione o difformità di clausole in sede di stipula del rogito. Sebbene in quel caso non si si trattasse di difformità o contrasto tra preliminare e definitivo, ma piuttosto di una simulazione (relativa) avente ad oggetto il corrispettivo della vendita, che, v’è da presumere,  era stato oggetto di precedente accordo tra le parti, la  Suprema Corte ha nuovamente ribadito il proprio orientamento affermando che: “qualora le parti, dopo aver stipulato un contratto preliminare, concludano in seguito un contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni [….] in quanto il contratto preliminare resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi a quella del preliminare, salvo che i contraenti non abbiano espressamente previsto che essa sopravviva”.

E’ agevole comprendere come, in quel caso, non si trattasse soltanto di operare un giudizio di prevalenza tra contratto preliminare e contratto definitivo, bensì di valutare l’efficacia di un contratto simulato, con tutte le conseguenti implicazioni sotto il profilo probatorio.

Pertanto, la presunzione di conformità dell’accordo definitivo alla volontà delle parti può essere superata solo da un atto scritto (ove si tratti di contratto avente ad oggetto beni immobili) che deve essere contestuale all’accordo definitivo e non già antecedente.

Per quanto sopra ricordato, è, dunque, raccomandabile verificareche l’atto pubblico sia aderente alle pattuizioni contenute nel compromesso, perché la dimenticanza può costare molto cara.

Il presente scritto rappresenta unicamente l’opinione dell’autore Avv. Massimo Massara.

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