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CassazioneDiritto Privato

RITENZIONE DELLA CAPARRA CONFIRMATORIA O RISARCIMENTO DEL DANNO: ELECTA UNA VIA NON DATUR RECURSUS AD ALTERAM

By 4 Novembre 2018No Comments

Ancora di recente, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7554 del 23.03.2017 ha ribadito l’orientamento secondo cui in caso di pattuizione di caparra confirmatoria, ai sensi dell’articolo 1385 del codice civile, la parte adempiente può scegliere tra due distinti rimedi: recedere dal contratto e trattenere la caparra ricevuta (ovvero esigere il doppio di essa) oppure chiedere la risoluzione giudiziale del contratto ed il risarcimento dei conseguenti danni, da provare a norma dell’articolo 1223 c.c.. Tali rimedi sono, però, infungibili e non cumulabili tra loro, sicché non ne è ammessa la simultanea proposizione in giudizio né la mutatio della domanda in appello.

La definizione della caparra confirmatoria è contenuta nell’art. 1385 del codice civile:
Se al momento della conclusione del contratto una parte dà all’altra, a titolo di caparra una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.
Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra.
Se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.
La caparra confirmatoria ha, dunque, la funzione di garantire l’esecuzione del contratto e, al contempo, ha natura di preliquidazione convenzionale del danno in caso di inadempimento: se inadempiente è colui che l’ha prestata, questi perderà la caparra, se invece l’inadempimento è imputabile a chi l’ha ricevuta, costui dovrà restituirne il doppio. Dunque, la caparra confirmatoria può assolvere la funzione di evitare il contenzioso giudiziale, poiché il danno connesso all’inadempimento è già stato quantificato e non richiede alcun accertamento in ordine alla sua congruità.

Alla parte adempiente è però riconosciuta facoltà di scelta. Infatti, essa potrà:
– optare per il recesso e ritenere la caparra ovvero pretenderne il doppio, senza alcuna necessità di provare il danno nel suo preciso ammontare;
– esigere l’esecuzione delle pattuizioni negoziali – ad esempio, proponendo azione per l’esecuzione specifica ex art. 2932 cod.civ. – ed offrire contestualmente la controprestazione;
– invocare la risoluzione del contratto per inadempimento con condanna al risarcimento del danno effettivamente patito. In tal caso, dovrà essere fornita la prova sia dell’ansia del quantum, secondo gli ordinari criteri in tema di onere della prova previsti dall’art. 2697 cod. civ.
Si è molto dibattuto se i due rimedi – recesso con ritenzione della caparra e azione di risoluzione – fossero cumulabili ovvero se fosse ammissibile sostituire in corso di causa l’una domanda all’altra.
Se da la possibilità di cumulo delle due azioni è ormai esclusa da tempo risalente , la questione relativa alla sostituibilità della domanda di risoluzione con quella di recesso è stata più travagliata, essendosi registrate statuizioni di segno opposto.
In sintesi: l’attore non inadempiente che ha agito per la risoluzione del contratto e la condanna al risarcimento del danno o per ottenere l’esecuzione del contratto può – nel corso della causa o in appello – sostituire le proprie originarie istanze optando per il recesso e la ritenzione della caparra, magari perché si è reso conto che il quadro probatorio non gli è così favorevole?
Egli medio tempore può ritrattare la sua scelta iniziale ed accontentarsi della sola caparra, evitando il rischio di trovarsi senza nulla in mano?
Il contrasto giurisprudenziale impose l’intervento delle sezioni unite. (Nel senso della possibilità di sostituzione Cass.n. 3331 del1959; n.1391del 1986; n.11760 del 2000; 849 del 2002; n. 11356 del 2006. In senso opposto, Cass. n. 8995 del 1993; n. 3555 del 2003).
La sentenza n. 553 del 14.01.2009, con un’articolata analisi dei diversi istituti, ha fatto definitiva chiarezza, così sintetizzatibile: electa una via non datur recursus ad alteram.
Il creditore – si legge – ha certamente diritto al risarcimento integrale se riesce a dimostrare il danno, ma non può modificare la propria pretesa, perché ciò costituirebbe un “indiscriminato favor per il creditore, secondo una sua personale convenienza valutata a posteriore, priva di alcun serio bilanciamento di interessi tra le parti”.
Tale principio pare ormai definitivamente consolidato ed stato ribadito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 7554 del 23.03.2017, ove si evidenzia l’incompatibilità delle due domande. Così viene chiarito l’assunto: “qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative”.
Quindi, la scelta tra ritenzione della caparra o azione di risoluzione per inadempimento va fatta subito ed è irrevocabile, perché non è ammesso – re melius perpensa – il postumo rifugio nella sola caparra, se le cose si mettono male.

Novembre 2018

Il presente scritto rappresenta unicamente l’opinione dell’autore avv. Massimo Massara